1 dicembre 2021, ore 17.30 – Biblioteca civica “P. Acclavio” – Taranto. Presentazione del libro postumo di Tommaso Anzoino, “Storie di mezza giornata”, Antonio Mandese Editore. Un’occasione per ricordare Tommaso Anzoino come intellettuale, come uomo di scuola (docente e Preside), ma soprattutto come amico.
Ricordando Tommaso Anzoino, a un anno dalla sua scomparsa, di Franca Poretti Tra qualche giorno, il 28 febbraio, sarà un anno che Tommaso Anzoino non è più tra noi, con noi. S. Agostino, a distanza di secoli, continua a dirci: «La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come se fossi nascosto nella stanza accanto»; ed è vero: le persone a noi care non se ne vanno mai del tutto, ma lasciano “un’eredità di affetti”, tuttavia, quando si realizza che quelle persone non camminano più accanto a noi, non ci guardano, non ci sorridono, non ci parlano, i ricordi, da soli, non bastano a lenire il dolore dell’assenza. Un destino post mortem più benevolo accompagna lo scrittore, che, anche quando non c’è più, proprio grazie ai suoi scritti, rimane sempre vivo non solo per le persone con cui ha condiviso la vita, ma anche per quanti lo abbiano incrociato, conosciuto e apprezzato; basta, infatti, prendere in mano una sua opera ed egli riappare, si materializza attraverso le sue parole, vettori delle sue idee, dei suoi pensieri; ogni scrittore vive nel ricordo dei suoi lettori. È quel che possiamo dire di Tommaso Anzoino, già noto per diverse opere (famoso il saggio su Pasolini, seguito da Esame di incoscienza, Gabriel a cena da Clinton, e dai romanzi El premio, Lì, Alla prossima scendo), e del quale è stato pubblicato, dopo la morte, a cura della moglie, un ultimo libro, Storie di mezza giornata, Antonio Mandese Editore, in 16 capitoli, preceduti da una lunga prefazione e seguiti da una breve conclusione. Nella prefazione di questo libro c’è tutto Anzoino scrittore, a cominciare da quelli che lui chiama gli agenti poetici (o poietici) della sua scrittura: la svagatezza, l’andare da un argomento all’altro, e la labilità, un atteggiamento abitualmente distratto o indolente. Gli autori preferiti e fondamentali per la sua formazione emergono nelle sue citazioni (Saramago, Garcia Lorca, Giuseppe Berto, James Joyce, ecc.); gli piace fare digressioni (nel romanzo ce ne sono tante, per es. sulla parola “perché?”, la più antica, che ha dato inizio al pensiero, alla filosofia). Ma soprattutto nella prefazione c’è la domanda più importante per lui come scrittore: si possono ancora scrivere romanzi in questi tempi criminali, in cui ci tocca vivere? Quasimodo (E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore?) e Majakowskji (La poesia è una cosa canaglissima, ma è, cioè, esiste) si erano già posti la domanda e avevano comunque scritto poesia in tempi durissimi. La risposta dell’autore è che, anche se in questi tempi vanno più di moda saggi scientifici o storici o critici, lui, per la sua formazione e la sua esperienza di vita, non può scrivere altro da quello che scrive, cosa che lo rende al contempo molto felice e infelice.La storia raccontata, quasi una testimonianza/testamento, in parte autobiografica, ha per protagonista un uomo di quarantacinque anni, docente, ricercatore, scrittore, descritto attraverso le parole di una figlia, una moglie e un figlio; il tempo della narrazione ruota intorno al giorno del suo 45° compleanno, l’ultimo della sua vita, un tumore al cervello gli impedirà di festeggiare il 46°; nel romanzo il presente si mescola al passato, con il ricordo dei momenti più importanti della sua vita. Nello stile che è quello di Saramago, senza virgole, punti e virgole, punti, anche interrogativi ed esclamativi, maiuscole, a capo, si alternano diversi registri linguistici, a seconda del personaggio che racconta. Il più singolare è quello in cui si esprime la figlia, con incertezze lessicali e costanti errori di grafia; la bimba ha quasi 10 anni, si chiama Giovanna, nel padre vede un essere superiore, molto intelligente, molto bello, molto tutto, a cui vuole assomigliare, uno che le spiega sempre tutto (non come la mamma), di cui ammira tutto, anche quello che non capisce; tra loro c’è un legame profondo, c’è “un bene che arriva fino al cielo”. A volte lei pensa a quando avrà 19 anni e il padre ne avrà 55 (cosa che non accadrà). Quando il padre muore, il mondo le crolla addosso, nella sua mente si affollano pensieri molto tristi, attraversati da un senso di estrema e sofferta solitudine: il padre non tornerà più e lei non lo potrà più vedere, non gli potrà più chiedere niente; non è vero che è andato in cielo; ora che lui non c’è più, niente ha più importanza. Anche nelle parole della moglie emerge un uomo dominante per la sua cultura, la sua ironia, la sua capacità di far ridere, di essere al centro dell’attenzione, di fare il “Narciso”, trattando con leggerezza, ma senza superficialità, anche l’argomento più serio; per lui la cultura era tutto, la conoscenza era tutto, e infatti di sé diceva che sapeva solo leggere e scrivere. Ma col tempo ella ha dovuto accettare di lui tante cose che non le piacevano (i tradimenti soprattutto, anche se tornava sempre da lei, le bugie, lui le mente spesso, poi le chiede perdono, ma non sa cosa sia il pentimento); lei ha nostalgia del passato, di quando erano innamorati; sa che è impossibile essere felici per sempre; è una donna rassegnata, anche gelosa e sospettosa, con la paura irrazionale che lui un giorno possa andarsene e non tornare mai più, irrazionale perché lui ama troppo la sua famiglia, soprattutto la sua bimba. Infine, c’è il figlio, che sente il peso del padre da tutti amato, elogiato, come docente, come intellettuale, sa che non riuscirà mai a essere come lui né per cultura né per il fascino che lui, il padre, suscitava nelle donne; non riesce a confidarsi con lui; nelle sue parole si sente da una parte ammirazione, dall’altra un senso di inadeguatezza, un complesso di inferiorità, che lo porta a ritrovarsi solo. Perché il nostro Anzoino ha scritto questo libro? Lo dice l’autore stesso nella pagina conclusiva: “Ho scritto questo libro perché volevo morire come personaggio, non secondario, ma come personaggio protagonista .. e se ci sarà un altro libro, (il protagonista) sarà uno lontanissimo da me; se ci sarà, non sarà un intellettuale, non sarà un professore, non sarà un esibizionista come è inevitabile che sia un intellettuale, un professore, oppure scriverò un “romanzo corale”, ma devo trovare il coro, prima”. Forse questo coro, lì dove è andato, lo ha trovato: il coro di tante persone (parenti, amici) che lo hanno preceduto, e lo stavano aspettando, pur augurandogli di tardare quanto più possibile ad andare da loro.